Il paziente spazientito: una prospettiva dell’umanesimo digitale senza l’uomo

Scritto il 27/05/2025

Quando la retorica dell’umanizzazione nasconde sistemi che rendono le persone sempre più impazienti, frustrate e sole

Nella sanità digitale italiana si osserva un paradosso: più si parla di umanesimo digitale, più i pazienti sembrano diventare “spazientiti”. Dietro le proclamazioni di sistemi “umano-centrici” e “orientati alla persona”, si nasconde spesso una realtà che trasforma chi dovrebbe essere curato in un utente frustrato, costretto a navigare labirinti digitali che promettevano di semplificargli la vita.

Nel 2024, con la campagna “La chiameremo Umanità” e il progetto HumanCare, Koncept ha aperto la strada a riflessioni ed eventi che sviluppano il tema dell’umanesimo digitale nella sanità italiana. Tuttavia, osservando i dibattiti attuali, si nota ancora un approccio prevalentemente quantitativo: “abbiamo implementato questa app”, “abbiamo digitalizzato quel processo”, “abbiamo raggiunto questi numeri di utenti”.

Raramente ci si sofferma su come si devono fare le cose e come dovranno essere in realtà le soluzioni che progettiamo.

Durante i convegni e i forum dedicati all’innovazione sanitaria, assistiamo spesso a una celebrazione dei risultati: quante app sono state scaricate, quanti accessi al fascicolo sanitario elettronico, quante prenotazioni online sono state effettuate. Questi dati, pur importanti, raccontano solo una parte della storia.

“Abbiamo digitalizzato il 90% dei processi di prenotazione”, annuncia con orgoglio un dirigente sanitario durante una conferenza. Ma quando si chiede agli operatori sul campo, la risposta è diversa: “Il sistema mi fa perdere più tempo di prima”, “Le procedure sono diventate più complesse”, “Ho meno tempo da dedicare ai pazienti”.

Il paradosso è evidente: i numeri parlano di successo, l’esperienza quotidiana racconta una realtà diversa. Manca un approccio qualitativo che si concentri sul “come” progettare e implementare, non solo sul “cosa” realizzare.

La vera sfida dell’umanesimo digitale non è rendere umana la tecnologia, ma creare una simbiosi naturale tra persone e strumenti digitali. Questo significa progettare sistemi che si adattano ai ritmi e alle logiche umane, invece di costringere gli utenti ad adattarsi alla logica delle macchine.

Questa lacuna apre scenari inesplorati basati sull’esperienza e su un rapporto simbiotico tra persone e tecnologia, dove l’intelligenza artificiale generativa può giocare un ruolo determinante. A differenza dei sistemi tradizionali, che richiedono istruzioni precise e sequenze predefinite, la GenAI può comprendere il linguaggio naturale, interpretare il contesto e adattarsi alle preferenze individuali.

Le potenzialità sono ampie. Un sistema di cartella clinica potrebbe funzionare come un assistente virtuale: invece di navigare tra menu e sottomenu, il medico potrebbe semplicemente dire: “Mostrami i risultati delle analisi del sangue di Maria Rossi degli ultimi sei mesi e confrontali con i valori di riferimento”. Il sistema comprende, elabora e presenta le informazioni nel formato più utile.

Ogni operatore sanitario ha il proprio modo di lavorare e l’AI generativa può osservare e apprendere da questi pattern, personalizzando automaticamente le interfacce. Se un infermiere controlla sempre prima la pressione e poi la temperatura, il sistema anticipa questa sequenza. Se un medico preferisce vedere i dati in formato grafico piuttosto che tabellare, l’AI adatta la visualizzazione.

Il supporto clinico può andare oltre i semplici protocolli. Analizzando la storia del paziente, i sintomi attuali e la letteratura medica più recente, la GenAI può suggerire percorsi diagnostici o terapeutici, sempre lasciando la decisione finale al professionista.

Il vero successo dell’AI in sanità sarà raggiunto quando diventerà invisibile: documenti che si compilano automaticamente mentre si parla con il paziente, referti che si generano in linguaggio naturale dalla descrizione vocale del medico, promemoria che si attivano al momento giusto senza essere programmati.

La differenza tra digitalizzazione e umanizzazione digitale si manifesta nella pratica quotidiana degli operatori sanitari. Un sistema che permette di registrare informazioni senza interrompere la conversazione con il paziente rappresenta un esempio di come la tecnologia possa preservare e valorizzare la relazione umana invece di ostacolarla.

Non basta trasferire processi cartacei su supporti elettronici; serve ripensare completamente l’interazione tra umano e tecnologia.

Se vogliamo davvero valutare il successo dell’umanesimo digitale, dobbiamo cambiare le metriche di riferimento. Oltre ai dati quantitativi, servono indicatori qualitativi:

  • Il tempo di qualità che gli operatori riescono a dedicare effettivamente alla relazione con i pazienti
  • La riduzione del carico cognitivo attraverso sistemi che semplificano i processi mentali necessari per completare un’attività
  • La fluidità dell’interazione e quanto naturale risulta l’uso della tecnologia nel flusso di lavoro
  • La soddisfazione d’uso e come gli utenti percepiscono emotivamente l’interazione con il sistema

Progettare sistemi simbiotici richiede un approccio radicalmente diverso da quello tradizionale. Non si può più partire dalle specifiche tecniche per arrivare all’utente finale. Il percorso deve essere invertito: partire dall’osservazione delle persone al lavoro, comprendere i loro bisogni non espressi, progettare soluzioni che si integrano naturalmente nelle loro routine.

Questo significa investire in ricerca etnografica, in laboratori di co-progettazione, in prototipi che vengono testati sul campo prima di essere implementati su larga scala. Significa anche formare team multidisciplinari che includano non solo ingegneri e informatici, ma anche psicologi, antropologi, designer dell’esperienza.

Le istituzioni sanitarie hanno un ruolo fondamentale in questa transizione. Non basta finanziare progetti di digitalizzazione; serve orientare gli investimenti verso soluzioni che mettono davvero al centro l’esperienza umana. Questo implica criteri di valutazione più sofisticati, che vanno oltre la conformità tecnica e la convenienza economica.

Serve valutare l’impatto sull’umanizzazione delle cure, la sostenibilità nel tempo, la capacità di migliorare la qualità di vita lavorativa degli operatori.

Il futuro della sanità digitale italiana si costruisce oggi, nelle scelte progettuali che facciamo e nei criteri che usiamo per valutare il successo. L’intelligenza artificiale generativa offre strumenti senza precedenti per creare questa simbiosi tra umano e digitale, ma gli strumenti da soli non bastano.

Serve una visione che vada oltre i numeri, che metta al centro l’esperienza delle persone e che consideri la tecnologia come un amplificatore dell’umanità, non come suo sostituto. Solo così potremo davvero dire di aver costruito un sistema sanitario che merita di essere chiamato “Umanità”.

L’obiettivo non è più dimostrare che la tecnologia funziona, ma che funziona per le persone. E questo cambia tutto.