Si fa un gran parlare, con tanto di annunci più o meno roboanti, di ospedale virtuale. Ossia di un modello di cura e assistenza remotizzata che riprende il “Mercy Virtual Hospital” di Chesterfield del quale ho iniziato a parlare sette anni fa, dopo essere stato a visitarlo, confrontandomi col loro management.
In un articolo pubblicato il 4 dicembre 2017 raccontavo di quella che, ai tempi, era una vera e propria sfida tecnologica lanciata da veri e propri “capitani coraggiosi”, capaci di immaginare la telemedicina dedicata al monitoraggio remoto delle sale di terapia intensiva e all’assistenza remota (prevalentemente infermieristica) di qualche migliaio di pazienti cronici particolarmente complessi. E avevano cominciato nel 2015, con un progetto pilota che coinvolse 50 pazienti residenti nella cittadina di Washington (niente a che fare con la Capitale Federale…) nel Missouri, distante poche miglia da Chesterfield.
Partiamo da lì, dal Mercy Virtual.
Costruito nel 2015, doveva rispondere a un obiettivo ben preciso: assicurare cure remote a pazienti (ricoverati e non) dei molti ospedali del gruppo americano.
Il modello di business era quindi decisamente chiaro: una struttura erogatrice di prestazioni di Telemedicina e Teleassistenza Infermieristica (poi si aggiunse la Teleriabilitazione) al servizio del gruppo Mercy e dei suoi pazienti (paganti).
Il tempo (ormai sono passati quasi dieci anni) ha dato ragione a questa iniziativa di business (perché di business si tratta), i pazienti seguiti sono decine di migliaia e la loro soddisfazione è costantemente in crescita.
Veniamo al dunque: quanto questo modello, tipicamente americano, può funzionare in Italia?
Le risposte sono due: ottimamente se parliamo di sanità privata e di prestazioni pagate direttamente dai pazienti, mentre non funziona se chi entra nel mercato degli ospedali virtuali ha in mente di operare in regime di convenzione.
Perché, di mezzo, c’è il PNRR e ci sono le progettualità già avviate per la realizzazione delle Infrastrutture Regionali di Telemedicina (IRT).
Un ipotetico ospedale virtuale che volesse operare in regime di convenzione col SSN dovrebbe necessariamente utilizzare le IRT, altrimenti la Corte dei conti potrebbe chiedersi come mai sono stati spesi più di 300 milioni per dotare di piattaforme di telemedicina tutte le Regioni e le Aziende Sanitarie e Ospedaliere italiane.
A quel punto, il nostro ipotetico ospedale virtuale diventerebbe un semplicissimo fornitore di risorse professionali (medici e infermieri) privo di qualsiasi asset tecnologico, e i ricavi diventerebbero insufficienti a garantire il break-even. Basta saper usare Excel per capirlo…
Quello che invece è decisamente più solido e ampiamente sostenibile è il modello di reparto virtuale, ed è in questa direzione che ha senso investire a livello di sanità pubblica.
Ciascun ospedale pubblico, utilizzando l’IRT (e quindi senza ulteriori oneri a loro carico), può aprire reparti e ambulatori virtuali: i pazienti stanno a casa, e vengono seguiti dal personale medico e infermieristico interno o, se questo è insufficiente, da professionisti “interinali” arruolati ad-hoc).
Se poi questa struttura virtuale la facciamo lavorare in totale sinergia con l’Assistenza Domiciliare Integrata, abbiamo fatto bingo: i pazienti saranno seguiti sia da remoto che con interventi domiciliari, con evidenti vantaggi in termini di appropriatezza e continuità delle prestazioni.
Ma i vantaggi non si fermano qui: immaginiamo che, oltre ai cronici, i reparti e gli ambulatori virtuali possano seguire anche pazienti post-acuti, in regime di ospedalizzazione domiciliare.
Ecco che abbiamo contribuito a risolvere il problema delle liste d’attesa: abbiamo liberato posti letto, che possiamo dare a chi è in lista. Con piena soddisfazione, tra l’altro, anche dei pazienti che vengono mandati a casa rimanendo costantemente sotto controllo.
Fantascienza?
Mica tanto, se pensiamo che questo modello di reparto/ambulatorio virtuale è già in funzione da qualche anno al Sant’Eugenio e al Pertini di Roma, grazie alla lungimiranza dell’ASL Roma 2 e del suo DG Giorgio Casati e del Direttore dell’UOC Percorsi Clinico Assistenziali e Telemedicina, Antonio Salvatore Miglietta, veri e propri sponsor del progetto “Curare@Casa”.
80 pazienti di 9 Unità Operative dei due ospedali (e tutti questi numeri sono destinati a crescere) vengono seguiti dai professionisti interni, senza bisogno di personale aggiuntivo.
Qualche risultato ottenuto?
Ecco qui: riduzione di oltre il 10% degli accessi in Pronto Soccorso da parte di pazienti dimessi di recente, diminuzione del 10% dei “re-ricoveri” e dei ricoveri a forte rischio di inappropriatezza, considerevole riduzione del numero di giornate di degenza media.
La Telemedicina, quindi, supera gli attuali limiti del suo essere destinata esclusivamente a pazienti cronici, diventando uno strumento “di routine” anche per i post-acuti e per chi, essendo andato in Pronto Soccorso ed avendo ottenuto un codice “basso”, può tranquillamente tornarsene a casa sua rimanendo costantemente sotto stretto controllo medico.
Quanto ai “sogni di gloria” riferiti a ospedali virtuali modello Mercy, suggeriamo a chi li sta promuovendo (ottenendo anche una eco istituzionale da parte del Sottosegretario all’Innovazione tecnologica Alessio Butti, ma non crediamo che al Ministero Salute e in AgeNaS la pensino allo stesso modo e con uguale entusiasmo) di rivolgersi a grandi gruppi di Sanità privata, dove potranno trovare un forte interesse a realizzare reparti e ambulatori virtuali per pazienti solventi.
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