Agire sull’intramoenia? Attenzione alle conseguenze

Scritto il 24/11/2025

È di questi giorni l’alert del Ministro Schillaci che ventila la possibilità di sospendere l’attività libero professionale in intramoenia per favorire l’erogazione di prestazioni in regime di Servizio sanitario nazionale negli ospedali che fanno registrare un rapporto non “equilibrato” tra i due regimi di erogazione.

Premetto che non sono mai stata appassionata dell’attività libero professionale negli ospedali che nella sanità pubblica riguarda solo i dirigenti sanitari (e che molte professioni sanitarie del comparto aspirano ad ottenere), attività che non ha nessun riscontro tra i dirigenti del vasto mondo della pubblica amministrazione. Immaginiamo avvocati, commercialisti, architetti, ingegneri a tempo pieno che nei comuni, nelle regioni, in altri enti pubblici possano esercitare la libera professione che deve essere organizzata e garantita dall’ente di appartenenza; credo che si solleverebbe una levata di scudi dei cittadini utenti. 

La libera professione intramoenia nasce con il cd Decreto Bindi che introducendo l’esclusività del lavoro con la sanità pubblica ha concesso la possibilità ai medici di esercitare la libera professione negli ospedali con l’obiettivo di “fidelizzare” i professionisti e regolamentare una attività già presente in modo non organizzato assicurando anche dei proventi all’ospedale che ricava una percentuale dei proventi derivanti dalla libera professione. Tale regime naturalmente si è diffuso a macchia di leopardo a seconda della tipologia di ospedale (centro di eccellenza, ospedale periferico) e delle branche specialistiche (con grandi evidenti sperequazioni tra l’attività libero professionale di un dermatologo rispetto a un medico di pronto soccorso che per sua natura non ha domanda di prestazioni programmate).

Dal 1999 anno di promulgazione del cd Decreto Bindi numerose sono le novità intervenute. Intanto una programmazione bipartisan al ribasso delle borse di specialità (che essendo onerose per lo stato sono state falcidiate dalla spending review) comporta oggi non una carenza di medici, come con insistenza viene raccontato, ma una carenza di specialisti soprattutto nelle discipline in cui esercitare la libera professione è di fatto limitato (medici di emergenza/urgenza, rianimatori, psichiatri, ecc). Anche gli interventi più recenti, per esempio il cosiddetto Decreto Calabria che consente di assumere gli specializzandi per colmare il gap che negli anni si è venuto a creare, non sono sufficienti nel breve periodo per riempire gli organici dei concorsi medici che vanno deserti o che a malapena coprono pochi posti tra quelli disponibili. 

Questa è la questione: agire oggi per limitare la libera professione negli ospedali pubblici diventa un ulteriore regalo alla sanità privata che già attinge al sistema pubblico per reclutare i professionisti, sanità privata che può agire con una regolamentazione personalizzata senza lacci e lacciuoli e che anzi utilizza bene il canale libero professionale e delle assicurazioni per assicurarsi flussi di attività. Senza libera professione negli ospedali temo una “diaspora” pericolosa.

Qui si arriva a una seconda questione. Recentemente in alcuni eventi in cui sono intervenuta ho evidenziato la sperequazione tra ciò che viene chiesto agli ospedali pubblici, chiamati a “vicariare” o integrare la sanità territoriale, sacrificando le risorse già limitate a disposizione, e la sanità privata. La sanità privata, come se nulla fosse cambiato dopo il covid, miete successi nelle classifiche internazionali e si limita a erogare prestazioni, magari attingendo alle risorse aggiuntive che faticosamente lo Stato trova per calmierare tempi di attesa che, come i tecnici sanno bene, pur aumentando l’offerta lievitano sempre e comunque. A fronte di queste mie osservazioni qualcuno ha eccepito che il privato ormai integra il pubblico, che pubblico e privato sono sullo stesso piano, che meno male che il privato c’è. Insomma il tema viene discusso sempre come se fosse un tema “ideologico”, ma assolutamente non è così. In un sistema di committenza pubblica, dove le regole sono pubbliche e i ricavi delle strutture private sono i soldi dei contribuenti, ogni attore deve dare un contributo ai nuovi modelli sanitari, anche quando si parla di sanità territoriale. Quale contributo si immagina dei privati accreditati nelle Case di Comunità e negli Ospedali di Comunità? Attualmente nessuno, il peso ricade sugli ospedali pubblici e sulla medicina generale decimata e a volte “resistente” a nuovi modelli.

Se a questo quadro aggiungiamo le regole che governano il sistema pubblico e il sistema privato per il reclutamento del personale la situazione si complica ulteriormente. A titolo di esempio, se un medico di fama va in pensione da un ospedale pubblico l’unica possibilità per un Direttore Generale per trattenerlo è chiedergli di lavorare gratis per un anno (sigh!). Il privato è pronto a offrire un buon contratto. Non c’è partita.

In definitiva, tornando al tema, ventilare un limite alla libera professione rischia di far perdere ulteriore terreno agli ospedali pubblici.
Rilancio con un’altra proposta. Perché invece di continuare a finanziare altre prestazioni aggiuntive che aumentano il volume di affari dei privati accreditati (e in prospettiva anche delle farmacie) non usare le risorse aggiuntive per eliminare qualche vincolo alle assunzioni nel pubblico, incentivare le discipline più critiche e il lavoro dei sanitari nelle aree interne? Da ex Direttore Generale di una importante azienda pubblica è stato umiliante leggere alcuni mesi fa che “si comprano prestazioni da privato perché il pubblico non ce la fa”. Certo se le regole restano quelle attuali il pubblico non ce la farà mai.